giovedì 7 maggio 2020

I braccianti (di Bellanova) denunciano: “3 euro l’ora per raccogliere pomodori e siamo senza mascherine”



L’emergenza Coronavirus ha reso ancora più evidente la condizione disperata dei braccianti. Migranti irregolari spesso, costretti a lavorare nei campi per la raccolta dei pomodori per pochi spiccioli. Per loro adesso potrebbe arrivare la regolarizzazione, la proposta è del ministro dell’Agricoltura Bellanova e se ne sta discutendo all’interno della maggioranza. “Sono irregolare – spiega Bah Abdhoul alla Stampa – e quando sei irregolare ti pagano meno».

Per lui 3 euro all’ora: tutti i giorni, senza riposi né contratto. «Me l’hanno proprio detto: posso lavorare solo in nero perché non ho i documenti».

Nei campi è quasi sera quando rientra nel ghetto abusivo di Borgo Mezzanone. Al confine tra Foggia e Manfredonia, a pochi passi dal centro di accoglienza per richiedenti asilo, dove mancano le minime condizioni di igiene e sicurezza. E dove la povertà significa anche criminalità. Risse, incendi, accoltellamenti. «Dormo con altre sei persone». In questo periodo, mai una visita medica. «Io non esisto, quindi niente dottori.

Il governo deve ricordarsi di noi». Il rischio contagio nei campi è alto: “Il timore c’è, stiamo a distanza e usiamo mascherine e guanti. Li compriamo noi, il padrone non ci dà niente», confessa Noumuu. Solo in Puglia, secondo l’Istat, i braccianti a tempo determinato sono 180 mila, di cui 38 mila stranieri regolari. A questi si aggiungono almeno 20 mila irregolari, di cui oltre 5 mila solo nel Foggiano. Leggi la notizia su Affari Italiani

Indiscrezioni dal Quirinale: “Scoppia la crisi di governo? Si torna alle urne a settembre”. Conte è spacciato



Una “velina”, dal Quirinale. Nessuna dichiarazione pubblica, parole riportate però su diversi quotidiani. In primis parole rilanciate da Marzio Breda sul Corriere della Sera, una sorta di “portavoce ombra” di Sergio Mattarella. E le parole, ovviamente, sono quelle del presidente della Repubblica. Più che parole pensiero, strategia. In estrema sintesi, in caso di crisi di governo, Matteralla spedirebbe tutti quanti alle urne.

Sorprendente? Forse no. Il punto è che tra le sacre stanze della politica monta sempre più la convinzione che Giuseppe Conte non “sopravviverà” alla Fase 2: troppo caos, troppi fronti, troppo marasma. Insomma, potrebbe cadere prima dell’estate. Potrebbe bastare un incidente di percorso, e il caso-Bonafede potrebbe esserlo.

Il fatto che, per esempio, Matteo Renzi vorrebbe liebrarsi del premier non è certo un mistero, così come in molti settori del Pd monta l’insofferenza.Il punto è che una crisi al buio spaventa il Capo dello Stato, la cui arma – paradossalmente – ora sarebbe quelle delle elezioni. Conte, insomma, sarà l’ultimo premier di questa legislatura, in primis perché non ci sono altre maggioranze possibili, anche secondo Mattarella. In caso di crisi, dunque, l’esecutivo dimissionario traghetterebbe l’Italia fino al voto di settembre.

E la strategia di Mattarella, come detto, non è poi così sorprendente. Oggi, a differenza di qualche mese fa, almeno sondaggi alla mano, al voto hanno tutti da perdere: la Lega di Matteo Salvini, anche in coalizione con FdI e Forza Italia, non ha la certezza di vincere. Uguale per Pd e M5s, che comunque al governo già ci sono: perché rischiare, dunque? Matteo Renzi e Italia Viva sparirebbero. Insomma, in questo momento, al di là delle dichiarazioni di facciata, quasi nessuno vorrebbe andare al voto. Poi, certo, lo scenario è mutevole. Ma in questo scenario mutevole, Mattarella ha fiutato l’aria di questi giorni: con la “minaccia” delle elezioni, infatti, spera di allungare la vita al governo Conte, principale obiettivo del Quirinale.

Scandaloso! Ai domiciliari il carceriere di Giuseppe di Matteo, il bambino sciolto nell’acido. Governo criminale!



L’ergastolano Cataldo Franco, originario di Gangi (Palermo) e condannato per il tragico caso del piccolo Giuseppe Di Matteo, ha ottenuto la detenzione domiciliare per il rischio Covid-19.

 L’uomo, che tenne segregato il figlio del pentito Santino Di Matteo nell’estate del 1994, per un periodo di circa due mesi, è anziano e malato ed è tornato nella sua casa di Geraci Siculo (Palermo) per il pericolo che potesse contrarre in carcere il Coronavirus. Questo in applicazione delle norme tendenti a ridurre il numero delle persone detenute nell’attuale periodo di emergenza.

 Franco “restituì” l’ostaggio – rapito per imporre al padre di ritrattare le proprie accuse – all’inizio della stagione delle olive, perché gli serviva il capanno in cui veniva tenuto il ragazzino, poi assassinato e sciolto nell’acido su ordine di Giovanni Brusca il 12 gennaio 1996.

L’ergastolano Cataldo Franco, originario di Gangi (Palermo) e condannato per il tragico caso del piccolo Giuseppe Di Matteo, ha ottenuto la detenzione domiciliare per il rischio Covid-19.

 L’uomo, che tenne segregato il figlio del pentito Santino Di Matteo nell’estate del 1994, per un periodo di circa due mesi, è anziano e malato ed è tornato nella sua casa di Geraci Siculo (Palermo) per il pericolo che potesse contrarre in carcere il Coronavirus. Questo in applicazione delle norme tendenti a ridurre il numero delle persone detenute nell’attuale periodo di emergenza.

 Franco “restituì” l’ostaggio – rapito per imporre al padre di ritrattare le proprie accuse – all’inizio della stagione delle olive, perché gli serviva il capanno in cui veniva tenuto il ragazzino, poi assassinato e sciolto nell’acido su ordine di Giovanni Brusca il 12 gennaio 1996.

mercoledì 6 maggio 2020

Vergogna nel Lazio, i buoni spesa arrivano solo ai rom, hanno la precedenza. I poveri italiani possono aspettare



Da Il Secolo D’Italia – Gli italiani che ne hanno bisogno vengono dopo. Il canale preferenziale è per i rom. È scandaloso il sistema Raggi e delle sinistre per sfavorire una buona fetta di italiani che avrebbero diritto ai sussidi in piena emergenza coronavirus.

FdI aspettava delle risposte precise a domande precise. Invece…”Anche durante l’odierna commissione Politiche sociali, che ha trattato la questione dei buoni spesa, abbiamo constatato la confusione ed i ritardi in cui sta incorrendo l’Amministrazione a guida grillina nella materiale consegna del sostegno ai beneficiari”. Così stigmatizzano in una nota congiunta Francesco Figliomeni, vice presidente dell’Assemblea Capitolina e Andrea De Priamo, capogruppo in Campidoglio di FdI.

 Nel Lazio è un gran caos, i buoni spesa non arrivano a chi ne ha bisogno e diritto; “e ciò a causa del contorto sistema immaginato dalla Raggi più per una questione di spot elettorale che di effettivo servizio alle fasce più bisognose alla popolazione”. Delle 160.000 domande presentate, soltanto una piccola percentuale ha infatti materialmente ricevuto il buono. Per questo Fdi si è adoperata con una interrogazione. Niente da fare: “dopo la mancata risposta alla nostra interrogazione, anche oggi non abbiamo ricevuto alcuna soddisfazione alle nostre precise domande” , scrivono De Priamo e Figliomeni.
Attivato un canale specifico per la popolazione rom
FdI ha insistito soprattutto sul “perché sia stato attivato un canale specifico per la popolazione rom che, come al solito, viene privilegiata rispetto al resto dei cittadini: molti purtroppo sono stati esclusi, tra cui anziani e molti padri di famiglia disoccupati. FdI non si è arreso: “Abbiamo anche chiesto di riaprire i termini delle domande. E far stanziare ulteriori risorse per cercare di andare incontro alle tantissime difficoltà che stanno patendo tanti romani. Ma temiamo che da Raggi e compagni, vista la loro conclamata incapacità, difficilmente possano giungere notizie positive”. La battaglia di FdI prosegue.

Sondaggio, euro: il 53% degli italiani vuole abbandonare la moneta “strozzina”. Le cifre choc (in positivo)



La politicamente correttissima Luiss, università della Confindustria, è l’ ultimo posto dal quale ti aspetti che esca qualcosa di meno che fedele all’ ortodossia europeista. Stiamo parlando dell’ ateneo che ha rimosso dalla cattedra lo storico Marco Gervasoni, colpevole di avere condiviso via Twitter la linea di Giorgia Meloni sull’ immigrazione. Eppure è proprio il Cise, il Centro studi elettorali della Luiss, guidato da Roberto D’ Alimonte, che ieri ha pubblicato l’ analisi di un sondaggio ritenuto sorprendente dagli stessi autori. Visto ciò che è accaduto durante i mesi dell’ epidemia, infatti, oggi il 53% degli italiani vorrebbe rivedere i rapporti con l’ Unione europea: il 18% è favorevole ad abbandonare l’ euro e il 35% auspica addirittura la soluzione estrema, la completa uscita dalla Ue.
GIOVANI SCETTICI
Già che ci siamo, dimentichiamoci il ritornello delle nuove generazioni entusiaste dell’ accrocco europeo. «Il dato della nostra rilevazione sembra in qualche modo contraddire questa narrazione», avvertono gli analisti del Cise. Infatti «è il 43% degli studenti a considerare positivamente la membership dell’ Italia, contro una maggioranza relativa del 46% che invece esprime un giudizio negativo». Anche tra i giovani, insomma, ci sono più contrari che favorevoli all’ affiliazione europea. Sotto la spinta del Covid stanno cambiando pure le differenze tra destra e sinistra.

La risposta dei nostri “partner” europei alle richieste di aiuto del governo Conte è condannata senza appello dall’ 85% degli italiani, ma fa impressione che, tra chi la pensa così, ci sia il 64% di coloro che si dichiarano elettori del Pd e il 67% dei sedicenti renziani (tra grillini, forzisti, fratelli d’ Italia e leghisti non ne parliamo: la quota degli imbufaliti parte dal 90% per arrivare al 98). Nonostante ciò, l’ ampia maggioranza degli italiani di fede progressista ritiene ancora che far parte dell’ Unione sia «un fatto positivo». Sul totale, si tratta comunque di una quota secondaria. «Abbastanza sorprendentemente», scrivono gli studiosi della Luiss, solo una minoranza degli intervistati (47%) vorrebbe che l’ Italia rimanesse sia nella moneta unica che nella Ue». Si tratta della «cifra più bassa mai registrata nei sondaggi a cura Cise che, seppur con livelli diversi di supporto, avevano sempre mostrato una maggioranza a favore della piena permanenza nella Ue».

La percezione che i nostri connazionali hanno delle istituzioni europee e della «solidarietà» degli altri Paesi è dunque mutata in modo profondo. Per il resto, lo studio conferma le divisioni già note: la Ue piace a chi ha soldi in tasca ed è contestata da chi fatica ad arrivare a fine mese. Imprenditori e dirigenti, i cui affari spesso travalicano i confini nazionali, continuano a dare un giudizio positivo dell’ appartenenza all’ Unione, promossa dal 52% di loro (i contrari sono il 32%). Sul fronte opposto ci sono i disoccupati e gli operai, un’ ampia maggioranza dei quali (58 e 57%) ritiene dannoso tale legame.
L’ IRA DEI COMMERCIANTI
Particolare attenzione meritano i commercianti, forse la categoria più colpita dalla sospensione delle attività: oggi il 38% di loro chiede di uscire dall’ euro (ma non dall’ Unione) e il 26% vedrebbe con favore una completa Italexit. In altre parole, solo il 36% dei commercianti vuole restare nella Ue alle condizioni attuali. «La negatività espressa da questo gruppo non sorprende ed è, per certi versi, preoccupante», notano allarmati gli autori dello studio. Infatti, «qualora il nesso tra condizione socioeconomica e atteggiamenti verso l’ Europa fosse confermato, all’ incedere rapido della crisi potrebbe seguire una virata in direzione ancor più euroscettica della categoria», che diventerebbe così terra di facile conquista elettorale per Lega e Fratelli d’ Italia. Dalle altre capitali europee, peraltro, non arrivano segnali di ravvedimento.

Gli olandesi, con i loro veti, continuano a premiare la posizione di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ieri il ministro delle Finanze, il cristiano-democratico Wopke Hoekstra, ha annunciato che il suo governo imporrà una serie di condizioni per dare il via libera ai prestiti del fondo salva-Stati finalizzati ad affrontare l’ emergenza sanitaria. Chi accede al credito dovrà impegnarsi a spendere i soldi solo per tale scopo, accettando di sottoporsi a un controllo europeo. Sarà necessaria una «analisi dei rischi per la stabilità finanziaria e la sostenibilità del debito», dalla quale l’ Italia difficilmente uscirebbe bene, e i prestiti dovranno avere una durata più breve di quella normale.

martedì 5 maggio 2020

Nicola Zingaretti “coccola” i criminali scarcerati per il virus: il Lazio offre i soggiorni in hotel e bed & breakfast



Di Paolo Bracalini – La Regione Lazio paga il soggiorno in bed and breakfast a cinque detenuti in semilibertà, nell’ottica di prevenire la diffusione del Coronavirus in carcere. La «determinazione» (orrendo termine burocratese in uso in quei palazzi) del 18 marzo scorso è firmata dal responsabile della direzione «Servizio tecnico, organismi di controllo e garanzia» del Consiglio regionale del Lazio, e ha come oggetto il «Sostegno alle spese di sistemazione alloggiativa (altro neologismo burocratico, ndr) per cinque detenuti semiliberi, autorizzati d’urgenza a una licenza per l’adozione di misure volte a prevenire il contagio da Covid-19 in carcere».

La decisione è arrivata in seguito alle violente proteste dei detenuti nelle carceri italiane nel marzo scorso, compresi Rebibbia e Regina Coeli a Roma. L’11 marzo il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha disposto una licenza di quindici giorni «per consentire ai detenuti semiliberi di non rientrare in carcere la sera ed evitare in tal modo rischi di contagio per gli altri detenuti all’interno dell’istituto penitenziario», e ne ha individuati cinque in condizioni economiche disagiate, cioè non idonee a «sostenere le spese per una sistemazione alloggiativa idonea». Per questo si è attivato il «Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale», figura istituita con una legge regionale, il quale ha ritenuto di dover sostenere le spese di pernottamento per cinque detenuti semiliberi per un periodo di 15 giorni, per un importo complessivo pari ad 2.625 euro, «al fine di evitare rischi di contagio da Coronavirus per le altre persone detenute presso la III Casa Circondariale Rebibbia».

Il conto di 2.625 euro, pari a 35 euro al giorno per l’alloggio di ogni detenuto presso una struttura ricettiva a Roma, viene finanziato attraverso un fondo specifico presente presso Lazio Innova Spa, cioè una partecipata della Regione Lazio. Che ha fatto di più, ha predisposto uno stanziamento di 35mila euro per sostenere le spese di alloggio dei reclusi nei penitenziari del Lazio, quei soggetti ammissibili alla detenzione domiciliare, che però sono senza domicilio, né risorse per pagare un affitto. Uno «schiaffo» agli italiani per bene, una «resa dello Stato», ha protestato la Lega, mentre «medici e forze dell’ordine non hanno neppure camici e mascherine».

La Regione Lazio, presieduta dal segretario Pd Nicola Zingaretti (celebre il suo spritz al grido «niente panico, Milano non si ferma», prima di ammalarsi di Covid19), si è resa protagonista di altre polemiche durante la pandemia. Come il caso delle mascherine fantasma, pagate con un versamento di 11 milioni di euro come anticipo da parte della Regione Lazio, per la fornitura di 10 milioni di mascherine, ma poi mai consegnate dal fornitore incaricato con affidamento diretto dalla Regione, una ditta produttrice di lampadine e materiale elettrico all’ingrosso con sede a Roma e come socio al 49% un cittadino domiciliato nella città cinese di Ningbo. Sulla vicenda ha aperto un’indagine la Procura di Roma e anche la Corte dei conti del Lazio.

La Regione è parte offesa, i cittadini rimasti senza mascherine ancora di più. Ma la Regione Lazio si è fatta turlupinare anche sull’acquisto fatto dal direttore generale dell’Ares 118 (l’azienda di soccorso ed emergenza), delle barelle di biocontenimento, risultate troppo lunghe per entrare nelle ambulanze. Senza contare poi la brutta figura rimediata da Albino Ruberti, capo di gabinetto del governatore Zingaretti, beccato e multato per una grigliata fuori casa nonostante i noti divieti.

“Ho impegnato la fede per pagare le bollette”. I nuovi poveri in fila al Monte di Pietà: “Lo Stato non ci aiuta”



È una fila lunga e silenziosa. Una specie di via crucis ai tempi del distanziamento sociale. Si procede di qualche passo e poi ci si ferma, in attesa di avanzare nuovamente. C’è tutto il tempo per prendere coraggio. Il traguardo è una porta a vetri dove si legge: “Credito su stima”. Significa liquidità immediata, ed è un modo per sopravvivere alla crisi economica scatenata dalla pandemia.

Il meccanismo è semplice: consegni alla banca gioielli di famiglia, oro e beni di valore e in cambio ottieni soldi contanti. Lo fai con la promessa di estinguere il debito e di ritornare prima o poi in possesso di ciò che hai lasciato. Non è facile. Quegli oggetti hanno un valore incommensurabile perché rappresentano la tua vita. Li hai collezionati nel corso degli anni, sono il ricordo dei giorni felici e delle persone care. La spilla che la tua famiglia si tramanda da generazioni, l’orologio ricevuto per la laurea, gli orecchini che hai comprato con il primo stipendio, il servizio di posate della domenica, persino la fede.

È il caso della signora Iole, una delle prime a presentarsi stamattina al Monte dei Pegni di via Faleria, a Roma. Arriva dalle case popolari di Torre Maura, alla periferia est della città. “Da quando mio marito ha chiuso il bar andiamo avanti con la mia pensione di invalidità, appena 270 euro, e così un pezzo alla volta mi sono ritrovata costretta ad impegnare tutto l’oro che avevamo”, dice tra mille sospiri. Le sono rimaste solo le fedi, ma si è decisa a consegnare pure quelle. “Mi viene da piangere ma non abbiamo alternative sennò ci staccano la luce”. Iole ha una settantina d’anni, della guerra ricorda solo la fame e dice: “Mi sembra di essere tornata indietro nel tempo”.

È arrivato il suo turno, inspira a fondo, espira lentamente ed inforca la porta. Qualche passo più in là, invece, c’è una donna dell’est Europa. Non avrà più di trent’anni. La crisi economica le ha tolto lo stipendio ed ogni sicurezza. “Lavoravo in un bed and breakfast ma mi hanno licenziata, adesso prendo 400 euro di disoccupazione, viviamo con quelli e con la pensione di invalidità di mio marito, con un figlio piccolo e un affitto da pagare non riusciamo ad arrivare a fine mese”, si sfoga. Lei è qui per impegnare un girocollo al quale tiene particolarmente. “È uno dei pochi gioielli che ho”, confessa.

Anche Lucia, insegnante di danza, si è messa in fila pazientemente per ottenere denaro contante in cambio dei ricordi dei genitori e dei nonni. “Siamo rimasti senza lavoro e senza nessun sostegno da parte del governo, la categoria dei lavoratori dello spettacolo finora è stata praticamente dimenticata”, ci dice. Ha l’affitto della sala da pagare e una famiglia da mandare avanti. “Forse potremo riaprire ad ottobre, ma nessuno può dirlo con certezza”, allarga le braccia.

Poi c’è Diego, guardia giurata di 45 anni, che ancora aspetta la cassa integrazione. “Ho impegnato i gioielli di mia madre sei mesi fa per pagare una multa, contavo di recuperarli adesso e invece sono costretto a rinnovare la polizza”. È uno di poche parole Diego, e va dritto al punto: “Certo non mi fa piacere, ma è l’unico modo per ottenere contanti senza finire in mano agli strozzini”. Sì, perché affidando i propri preziosi al Monte di Pietà si hanno delle garanzie. A spiegarci meglio come funziona il meccanismo è Rainer Steger, condirettore generale di Affide, la più grande società di credito su pegno.

“È un prodotto molto indicato per tamponare delle difficoltà temporanee di liquidità – spiega Steger – ed ha un gran vantaggio: a differenza delle banche, noi non siamo tenuti a verificare la capacità reddituale e patrimoniale del cliente, guardiamo esclusivamente l’oggetto e in base a questo gli diamo il prestito”. “Quando scade la polizza – aggiunge – il cliente può riscattare il bene estinguendo il debito oppure chiedere il rinnovo, i casi in cui l’oggetto va all’asta sono pochissimi, appena il 5 per cento, e anche quando accade noi vendiamo sempre per conto del cliente per cui se il ricavato della vendita è maggiore del prestito, la differenza ritorna a lui”.

Per questo l’antico sistema del credito su pegno, di origine medievale, è diventato una delle risposte principali alla crisi portata dal coronavirus. “Già dalla scorsa settimana abbiamo notato un incremento dell’affluenza, ma oggi, nel giorno dell’allentamento delle misure restrittive, c’è stato un vero e proprio boom”, ci assicura il dirigente. Tanto che tutte le filiali del gruppo hanno deciso di estendere gli orari di apertura. “Le nostre polizze possono essere rinnovate fino a tre anni”, dicono dall’azienda. “Speriamo – conclude Steger – che per allora la crisi sia passata”.

Bonafede condizionato dai boss mafiosi. Il pm antimafia Di Matteo: “Confermo i fatti che ho riferito”



“I fatti che ho riferito ieri li confermo e non voglio modificare o aggiungere alcunché né tantomeno commentarli”. Lo afferma ad Affaritaliani.it il magistrato Nino Di Matteo dopo il botta e risposta con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a ‘Non è l’Arena’ su La7.

Carceri, Bonafede: “Io condizionato da boss? Assurdo e infamante” – “Ieri sera, nella trasmissione televisiva “Non è l’Arena”, si è tentato di far intendere che la mancata nomina, due anni fa, del dottor Nino Di Matteo, magistrato antimafia e attuale membro del Csm, quale Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) fosse dipesa da alcune esternazioni in carcere di mafiosi detenuti che temevano la sua nomina”. Così su Facebook il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “L’idea trapelata nel vergognoso dibattito di oggi, secondo cui mi sarei lasciato condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso è un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda”, ha aggiunto.

“E’ sufficiente infatti ricordare che, quando decisi di contattare il Dott. Di Matteo, quelle esternazioni di detenuti mafiosi in carcere erano già presso il mio Ministero da qualche giorno. Non solo. Furono oggetto di specifica conversazione in occasione della prima telefonata con cui, il 18 giugno 2018, proposi al dottor Di Matteo, in piena consapevolezza di ciò che questo rappresentava, di valutare la possibilità di entrare nella squadra che stavo costruendo per il ministero della Giustizia. D’altronde, se mi fossi lasciato influenzare dalle reazioni dei mafiosi non avrei certo chiamato io il dott. Di Matteo per valutare con lui la possibilità di collaborare in una posizione di rilievo – ha aggiunto – Sono consapevole che le mie scelte e le mie decisioni possono piacere o meno ma rigetto ogni e qualsiasi illazione al riguardo”.

”Alla fine dell’incontro, mi sembrava che fossimo concordi sulla scelta di quella collocazione, che gli avrebbe consentito di incidere su tutta la legislazione in materia penale. Ad ogni modo, ci lasciammo con questa prospettiva. Più tardi ricevetti una chiamata del dottor Di Matteo, il quale mi chiese un secondo incontro, che si svolse l’indomani (mercoledì 20 giugno 2018, ore 11:00).In quell’occasione mi disse che avrebbe preferito il Dap.Con profondo rammarico, gli spiegai che, dopo l’incontro del giorno prima, avevo già assegnato quell’incarico a un altro magistrato. Ricordo perfettamente che gli dissi che sarebbe stato comunque “la punta di diamante del Ministero contro la mafia”. Lui ribadì legittimamente la sua scelta. Ci siamo salutati entrambi con rammarico per non aver concretizzato una collaborazione insieme.Questi sono i fatti”, spiega Bonafede in un lungo post.

“Ho sempre agito a viso aperto nella lotta alle mafie che, infatti, nel mio ruolo ho portato avanti con riforme come quella che ho sostenuto in Parlamento sul voto di scambio politico-mafioso; con la Legge c.d. “Spazzacorrotti”; con la mia firma su circa 686 provvedimenti di cui al 41 bis e con l’ultimo decreto legge che, dopo le scarcerazioni di alcuni boss, impone ai Tribunali di Sorveglianza di consultare la Direzione nazionale e le Direzioni distrettuali antimafia su ogni richiesta di scarcerazione per motivi di salute di esponenti della criminalità organizzata”, ha concluso il ministro

lunedì 4 maggio 2020

Incarico Dap ritrattato dopo pressioni mafiose, Bonafede: “E’ solo una percezione del dottor Di Matteo”



(Adnkronos) – ‘’L’idea che io abbia ritrattato la proposta a Di Matteo non sta né in cielo né in terra. E’ una percezione del dottor di Matteo’’. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ospite di ‘Non è l’arena’ replicando al consigliere del Csm Nino Di Matteo che aveva riferito di avere avuto dal ministro l’offerta dell’incarico poi ritrattata.

‘’Sono esterrefatto nell’apprendere che viene data un’informazione che può essere grave per i cittadini – ha spiegato il ministro- perché fa trapelare un fatto sbagliato cioè che io sarei andato indietro rispetto alla mia proposta perché avevo saputo di intercettazioni’’.

‘’Ho chiamato di Matteo parlandogli della possibilità di fargli ricoprite uno dei due ruoli, direttore affari penali o capo del Dap . Gli ho detto ‘venga a trovarmi e vediamo insieme’. Lui – ha riferito Bonafede- mi disse delle intercettazioni di detenuti che in carcere dicevano ‘se viene questo butta le chiavi’. Sapevo chi stavo per scegliere, e sapevo di quella intercettazione, perché ne dispone anche il ministro’’, ha chiarito.

‘’Quando di Matteo è venuto gli dissi che tra i due ruoli era più importante quello di direttore affari penali, ruolo che era stato di Falcone, molto più di frontiera in lotta a mafia, non gli ho proposto un ruolo minore. Questa è la verità- ha assicurato – A me era sembrato, ma evidentemente sbagliavo, che fossimo d’accordo ma il giorno dopo mi disse di non volere accettare gli affari penali voleva il dap, ma io nel frattempo avevo già fatto‘’.

Lampedusa, sbarcati altri 44 clandestini. Altre quarantene pagate dagli italiani grazie al governo “scafista”



Non si placano gli sbarchi a Lampedusa: dopo una domenica apparentemente tranquilla sotto questo fronte, per via di un mare apparso costantemente mosso, un barcone con almeno 44 migranti a bordo è approdato nelle prime ore della serata sull’isola. Il mezzo è entrato nel porto ed è lì che le persone arrivate hanno ricevuto la prima assistenza da parte delle forze di soccorso. Quello di oggi è il terzo sbarco nel giro di 24 ore: sabato infatti, a Lampedusa sono stati annotati due approdi, per complessivi 77 migranti arrivati.

Questi ultimi hanno trascorso la notte sul molo Favarolo, lì dove i vigili del fuoco hanno montato una tenda per permettere ai migranti di rimanere in questa parte dello scalo lampedusano: “Dal momento che il Centro di accoglienza dell’isola è pieno – ha dichiarato il sindaco Totò Martello – e che la nave di linea non è arrivata a causa delle cattive condizioni del mare, i migranti sono stati fatti rimanere nell’area del Molo Favaloro dove quelli arrivati ieri hanno passato la notte, e dove anche stanotte resteranno insieme agli altri 43 arrivati oggi”.

Il locale hotspot già da giorni accoglie infatti diversi migranti alle prese con il periodo di quarantena, a cui in ordine all’attuale emergenza sanitaria devono anch’essi sottostare. E questo sta creando non pochi problemi non solo a Lampedusa, che non ha più locali idonei al distanziamento sociale dei migranti, ma anche al sistema di accoglienza siciliano.

Occorrono infatti trovare a tempo di record nuove strutture di accoglienza in grado di far rispettare la quarantena alle persone approdate lungo le nostre coste. Per di più, il mancato arrivo della nave di linea a cui il sindaco ha fatto riferimento ha reso necessario il sopra citato intervento dei vigili del fuoco: “Grazie alla disponibilità dei vigili del fuoco, che ringrazio per il loro supporto – ha specificato Martello – ho fatto installare al Molo Favaloro la tenda che era al Poliambulatorio e che al momento non era utilizzata, per poter dare riparo ai migranti in attesa che domani arrivi la nave di linea per effettuare il trasferimento”.

Sono quindi in totale 111 i migranti arrivati nelle ultime 24 ore a Lampedusa, una cifra importante in tempi di coronavirus. Ogni singolo sbarco infatti, obbliga le autorità locali, sull’isola come nel resto della Sicilia, ad importanti salti mortali per garantire assistenza e soccorso.

Ed ogni approdo inoltre, non manca di alimentare polemiche tra i cittadini, specie quelli dei comuni che ospitano strutture di accoglienza. Alla preoccupazione per la salute infatti, si unisce anche la sensazione di beffa quando viene riscontrato, come ad esempio nel caso del centro di accoglienza di Siculiana, che ai migranti a volte non vengono fatte rispettare le norme relative al distanziamento.

Covid e lockdown, allarme della Caritas: “È già emergenza sociale. Il numero dei poveri è raddoppiato”



L’effetto virus è già qui. L’altra faccia, quella economico-sociale dell’emergenza sanitaria, comincia già a manifestarsi in tutta la propria virulenza. Infatti, il numero delle persone in difficoltà che si rivolge per la prima volta ai centri della Caritas è raddoppiato rispetto al periodo pre-emergenza. Non chiedono solo aiuti in denaro, ma anche cibo e indicazioni per le pratiche di sostegno e per trovare lavoro. Meno male che in parallelo cresce anche il numero dei volontari under 34 anni. Sono alcuni dei dati dell’indagine emersi da un questionario destinato ai responsabili Caritas. Una “mappa“, con cui l’organizzazione ha cercato di tracciare il cambiamento nei bisogni dei nuovi poveri. Capire come come mutano gli interventi e le prassi operative sui territori. E quale è l’impatto del Covid-19 sulla creazione di nuove categorie di poveri, ma anche su volontari e operatori.
L’indagine della Caritas riguarda il periodo 9-24 aprile
I dati del monitoraggio si riferiscono a 101 Caritas diocesane ,su 218, pari al 46 per cento del totale. La prima rilevazione nazionale riguarda il periodo che va dal 9 al 24 aprile. Il primo dato è quello del raddoppio delle persone in stato di bisogno. Cresce la richiesta di beni di prima necessità, cibo, viveri e pasti a domicilio, empori solidali, mense, vestiario, ma anche la domanda di aiuti economici per il pagamento delle bollette, degli affitti e delle spese per la gestione della casa. Nel contempo, aumenta il bisogno di ascolto, sostegno psicologico, di compagnia e di orientamento per le pratiche burocratiche legate alle misure di sostegno e di lavoro.
Cambia la “mappa dei bisogni”
Il mutare dei bisogni e delle richieste ha imposto nuove risposte. In particolare, i servizi di ascolto e accompagnamento telefonico che hanno fatto registrare 22.700 contatti registrati o anche in presenza negli ospedali e nelle Rsa. La fornitura di pasti da asporto e consegne a domicilio ha riguardato invece più di 56.500 persone. Ben 290mila hanno invece ricevuto dispositivi di protezione individuale. Occorre poi aggiungere l’acquisto di farmaci e prodotti sanitari e la rimodulazione dei servizi per i senza dimora. Ma attivi sono stati anche i servizi di supporto psicologico e le iniziative di aiuto alle famiglie per il telelavoro e la didattica a distanza. Così come gli interventi a sostegno delle piccole imprese e l’accompagnamento all’esperienza del lutto. La Caritas ha messo in campo anche attività di sostegno per nomadi, giostrai e circensi costretti alla stanzialità

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