giovedì 16 aprile 2020

I malati di Coronavirus dell’Emilia Romagna mandati nelle case di riposo: così è iniziata la “strage” di anziani



La casa di riposo Madonna della Bomba Scalabrini, a Piacenza, la conoscono tutti. È un’istituzione. E allo stesso modo tutti sanno che con l’arrivo dell’epidemia molto è cambiato. La struttura è risultata essere uno dei luoghi più colpiti dal coronavirus, probabilmente anche per colpa della vicinanza con Codogno, il paese in provincia di Lodi epicentro del primo focolaio. Nella struttura privata, accreditata e convenzionata, che a pieno regime accoglie circa 100 ospiti (“tutti grandi anziani, sopra i 90 anni di età”, spiegano dall’istituto), dall’inizio dell’epidemia hanno perso la vita dalle 25 alle 30 persone. E a contarle, con la voce quasi rotta dal pianto, è il presidente della fondazione, don Andrea Campisi.

 Troppi morti e pochi tamponi Se si paragonano i decessi di quest’anno con quelli dello stesso periodo dell’anno scorso, nel 2020 si registra un numero sicuramente “diverso”, come confermano dalla struttura. Non tutti sono “certificati” Covid-19, visto che l’Usl ha effettuato soltanto una decina di tamponi sugli ospiti, trovandone positivi otto. Ma gli altri, con l’esclusione -forse- di tre persone, sono deceduti con sintomi febbrili riconducibili al nuovo virus.

Ormai è tardi per una diagnosi, ma il sospetto è che anche qui l’infezione sia arrivata come un’onda, portandosi via più persone di quelle che rientreranno nei freddi numeri delle statistiche. “Venti morti, anche senza avere la certezza assoluta del coronavirus, sono tanti – sospira il direttore, Paolo Cavallo – Il numero che ha toccato noi e i nostri operatori è completamente diverso da quello che può accadere normalmente in una struttura, dove ci può essere un mese con più morti, ma in maniera assolutamente naturale e più compatibile con la vita“. Non così.
Le limitazioni all’ingresso
Come in altre rsa di tutta Italia, anche alla Madonna della Bomba Scalabrini nessuno si aspettava di dover pagare un prezzo così alto. Non le vittime, non gli operatori, né le famiglie degli anziani, che non hanno nemmeno potuto piangere da vicino i loro cari. “Abbiamo superato la fase d’emergenza iniziale e in questo momento possiamo dire di non avere casi gravi. Le persone che hanno avuto sintomi da Covid-19 sono stabili. Sono tutti isolati e la situazione è migliorata. Ma è vero -ammette Cavallo- che abbiamo avuto dei giorni con un numero di decessi importanti“.
Il ruolo della Regione
La struttura è stata interdetta al pubblico nei giorni successivi alla diffusione dell’epidemia. “Noi abbiamo avviato limitazioni, chiedendo una registrazione all’ingresso e facendo entrare, all’inizio, soltanto una persona per ospite. Ma quando è uscita la nota regionale, la casa è stata chiusa al pubblico“. Le disposizioni dalla Regione sono arrivate sì tempestivamente, dicono dall’istituto, ma quando ormai il coronavirus iniziava già a fare i suoi morti. “La nostra è stata una delle prime strutture a essere colpite ed è stata anche una delle prime che ha chiuso dopo che c’erano delle febbri“, racconta la direzione. “Ma a quel punto non c’era più nulla di preventivo”. Se l’istituto è riuscito, in qualche modo, a contenere il già alto numero di contagi lo deve a una decisione presa in autonomia, com’è accaduto in altre realtà: “Noi abbiamo avuto certamente uno sguardo di attenzione, anche prima che si parlasse di isolamento, perché avevamo Codogno vicino”.
I contagi e gli operatori
La domanda a questo punto è: come si sono infettati gli anziani ospiti? Le ipotesi non mancano: vettori del contagio potrebbero essere stati quei pazienti che prima dell’ingresso in struttura sono passati per l’ospedale, dove potrebbero aver incontrato il virus. Oppure i familiari. O ancora chi è transitato solo dal centro diurno per poi fare rientro a casa. “Noi proviamo a ragionarci, pur sapendo che non c’è una risposta”, sospira Cavallo. I sospetti più forti riguardano però il ruolo degli operatori. “Noi abbiamo circa 80 persone che lavorano qui dentro“, spiega il direttore. Persone che entrano ed escono, incontrano familiari, circolano.

Nessuno di loro, tuttavia, è mai stato sottoposto a tampone, a eccezione di chi è finito in malattia, al pronto soccorso chi presentava stati febbrili persistenti. Ma se la domanda è se sia stato fatto un esame sui “sani” o sugli asintomatici, magari per impedire che portassero dall’esterno il virus tra i letti degli anziani, la risposta è no. Certo, oggi chi si assenta dal lavoro per malattia deve sottoporsi a un test che accerti la negatività al virus. Ma all’inizio della crisi, in piena emergenza, questa misura preventiva non è stata presa. Don Campisi, che parla dell’istituto come di una famiglia che ha perso i suoi nonni, ci tiene però a precisare che “i tamponi non vengono decisi da noi”, ma a chiederli è “l’istituto di igiene”. Come a dire che le responsabilità ci sono e vanno cercate, probabilmente a livelli più alti.

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